Editoriale

Carcere per diffamazione. Sono migliaia i giornalisti a rischio

Sono quelli con una condanna sospesa a condizione che non ne subiscano altre. Il “chilling effect” che pesa soprattutto sui direttori responsabili

La condanna per la quale la giornalista siciliana Graziella Lombardo, a dicembre del 2017, è stata assegnata ai servizi sociali, conferma che  in Italia i giornalisti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa continuano a essere condannati al carcere, a pene che tutti gli esperti considerano eccessive, sproporzionate.

La pesante sanzione a questo direttore responsabile smentisce inoltre il luogo comune secondo cui sarebbe inutile cambiare la legge che produce queste pene perché, a conti fatti, in Italia neppure un giornalista è in carcere per diffamazione. È vero che di solito il condannato beneficia della sospensione condizionale e non va in galera. Ma è vero anche il caso di Graziella Lombardo. E ci dice  quanto sia fondato il timore di finire in galera (o di scontare il carcere con misure alternative) per avere svolto il proprio lavoro.

Accade da 70 anni, continua ad accadere nonostante tutti i solenni impegni assunti da almeno vent’anni dal governo, dal parlamento e dai leader politici, per abolire almeno la punta più acuminata di una legislazione punitiva che ha un effetto raggelante (chilling effect) sulla libertà di informazione,  un effetto intimidatorio su tutti i giornalisti, blogger, opinionisti.

Non se ne parla, ma il problema riguarda da vicino migliaia di giornalisti italiani: quelli che hanno già subito una condanna, sia pure a pochi mesi di reclusione, e temono di finire effettivamente in carcere a causa della recidiva. Quelli quelli condannato negli ultimi cinque anni sono 775.

I più esposti sono i cronisti di nera e di giudiziaria, per la materia che trattano, e i direttori responsabili, poiché rispondono, insieme all’autore, di qualsiasi cosa pubblicata.

Siamo dunque di fronte a un effetto intimidatorio concreto e a vasto raggio, che  spinge i cronisti e i giornali a osservare una prudenza eccessiva, incompatibile con la libertà di informazione e con il dovere pubblicare anche quelle informazioni di pubblico interesse che al momento possono essere ambigue e contraddittorie, ma aiutano i cittadini a orientarsi. Se i giornalisti, pur mostrandosi prudenti, pur osservando la buona fede, non corressero il rischio di sbagliare, la loro professione sarebbe inutile: sarebbe inutile quanto i giornali senza notizie, senza le notizie più importanti. A chi giova spingere la prudenza a livelli sempre più alti, fino alla soglia dell’autocensura e a volte oltre?

Ossigeno non contesta il fatto che, al termine di un processo, chi è ritenuto colpevole debba scontare una pena, ma ritiene che per questo reato la pena detentiva sia sproporzionata  e produca un effetto intimidatorio (chilling effect). L’unica pena prevista deve essere la multa. Riuscirà il prossimo Parlamento a fare questa fondamentale riforma a costo zero? Riuscirà a togliere la diffamazione a mezzo stampa dalla lista dei reati per trattarla com un illecito civile? La diffamazione a mezzo stampa deve essere depenalizzata, come è già avvenuto per il reato di ingiuria. Lo ricordiamo ai candidati in lizza per un seggio.

Leggi anche: “Carcere per diffamazione. In Sicilia una giornalista ai servizi sociali”

ASP ONY

2 commenti
  1. Sarò Visicaro
    Sarò Visicaro dice:

    Il muro di omertà si consolida contro l’informazione. Non è un caso che avvenga a Messina. Città del monopolio e della opacità.

    Rispondi
  2. Alessio
    Alessio dice:

    Troppo vero, specie se si pensa che i criteri che distinguono diffamazione da diritto di cronaca sono spesso suscettibili di interpretazione soggettiva. Come mostrano anche siti specializzati (tipo https://www.diffamazioni.it/) se il criterio della verità del fatto raccontato è (abbastanza) oggettivo, la sua rilevanza sociale e la continenza nel linguaggio (gli altri due requisiti del diritto di cronaca) hanno contorni molto più sfumati.

    Rispondi

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